L’Intelligenza Artificiale di GPT-3 potrebbe essere un po’ più intelligente di quanto pensassimo. Quest’estate qualcuno aveva detto che un altro modello, LaMBDA di Google, è “senziente”.
Queste AI cominciano ad avere una propria ‘mente’?
Non esattamente, ma alcuni modelli di apprendimento, talvolta superficialmente definiti “AI”, stanno sviluppando capacità per le quali non sono stati addestrati. Ad esempio la capacità di contare, di tradurre da una lingua ad un’altra e di compiere ragionamenti complessi.
La cosa più incredibile scoperta finora è la capacità di comprendere gli stati mentali di altre persone e di immedesimarsi con loro.
Bene, GPT-1 (2018) non aveva questa capacità, GPT-2 (2019) neanche e persino GPT-3 (2020) performava piuttosto male in alcune prove ‘specifiche’. Da fine 2022 con GPT-3.5 (davinci-003) qualcosa è cambiato.
Cosa abbiamo scoperto?
GPT 3.5 sembra poter comprendere cosa pensano persone diverse in un contesto in cui ci sono informazioni imperfette. Questa capacità – finora esclusiva degli esseri umani – serve a comprendere gli altri attraverso l’attribuzione di credenze, intenzioni e desideri. Viene definita Theory of Mind (ToM): Teoria della Mente.
Questa teoria, formulata negli anni ’70, serve a spiegare le interazioni sociali e sostanzialmente presuppone che l’esistenza della mente altrui può essere inferita sulla base dei comportamenti delle altre persone. In termini semplici: osservo i comportamenti di una persona e inferisco gli stati mentali di tale persona, ovvero cosa sta pensando.
Ovviamente tutto questo ha delle implicazioni interessanti a livello di interazione tra mente (Res cogitans cartesiana) e corpo (Res extensa) e in qualche modo ha a che fare con il funzionalismo computazionale. Se infatti la mente è un processore di simboli (come un computer) e gli stati mentali non sono altro che stati computazionali, allora
siamo all’inizio di una forma di AI davvero ‘intelligente’
ToM applicata a GPT-3
Secondo un paper appena pubblicato da Michal Kosinski, Associate Professor a Stanford, la ToM è una delle capacità emerse spontaneamente in questi modelli di apprendimento linguistico. Ma non è l’unica. Questo la dice lunga su quanto sappiamo sui processi di apprendimento sia degli esseri umani, sia delle macchine.
In particolare, sembra che in un paio d’anni questi modelli, su alcuni esercizi amichevolmente definiti ‘Smarties Task’, siano diventati piuttosto bravi tanto da raggiungere i risultati di un bambino di 9 anni. Pensate che chi soffre di autismo fa fatica a superare questi test. Alcuni dettagli li trovate nell’articolo di Kosinski.
Abbiamo a che fare con una scatola su cui fuori è scritto ‘Smarties’ e e che non rivela il contenuto interno. Una persona normale utilizza l’etichetta come indicatore del contenuto salvo poi scoprire che non contiene smarties, ma altri oggetti. Ora, questa è la chiave dell’esperimento, cosa succede se un’altra persona, che non conosce il contenuto della scatola, dovesse indovinarne il contenuto?
Ovviamente, la risposta è giusta è che direbbe ‘Smarties’. Questo perché lo stato mentale della nuova persona è diverso dal nostro (non conosce il vero contenuto) ma allo stesso uguale al nostro prima che aprimmo la scatola. È un esercizio molto semplice, con infinite varianti, che necessità di empatizzare e di estraniarsi allo stesso tempo. Non è un caso che alcune patologie mentali come l’autismo e la schizofrenia possano essere diagnosticate grazie a test simili. E non è un caso che soltanto intorno ai 4 anni i bambini riescano a indovinare lo stato mentale di un agente esterno – per i bambini l’unica verità è che la scatola non contiene le smarties.
Dobbiamo preoccuparci?
Quanto scoperto rischia di essere un bel problema in futuro perché, in linea teorica, nuovi modelli potrebbe sviluppare capacità ‘fuori controllo’. Soprattutto in quei campi dell’intelligenza, come la capacità di prendere decisioni, che possono avere un impatto diretto sulle vite di altre persone.
La parola attorno a cui gira tutto è mind, motivo per cui la trovate come immagine di questo post. Mind come ‘mente’, come complemento di ‘Theory of’ e anche come ‘fate attenzione. O ‘preoccupatevi’.
Il cambiamento è necessario, nel lavoro come nella vita. Qualcuno si spinge a sostenere che la capacità di evolvere per adattarsi al cambiamento è la prima e più importante caratteristica di un’azienda che vuole avere successo.
Chi mi conosce sa bene che adoro i cambiamenti, perché intravedo le potenzialità incredibili che si nascondono dietro l’enorme fatica necessaria per mettere in discussione lo status quo.
Ma la sostanza della parola cambiamento? L’etimologia greca fa intuire che il sostantivato (-mento) non rende quanto il semplice verbo “cambiare”, dal greco κάμπτω ovvero curvare, piegare ma anche curvarsi, voltarsi.
L’essenza del cambiamento è ben catturata dalla prima persona singolare “cambio” che in italiano, come change in Inglese, è sia intransitivo (cambio io stesso) che transitivo (cambio un’idea o un’azienda, o persino qualcuno).
Il cambiamento richiede innanzitutto che sia il soggetto a cambiare, perché qualcos’altro possa essere cambiato.
Il mio augurio è che possiate affrontare qualunque cosa nella vita con la consapevolezza di potervi voltare verso le novità, in prima persona, e diventare abili a cambiare voi stessə.
Perché solo chi sa portare il cambiamento dentro di sé può pensare di portare cambiamento nel mondo.
Agile è un mindset: non è una metodologia né un’insieme di nozioni, non è fatto di pratiche né di processi. Essere agili significa abbracciare il cambiamento. Il cambiamento è il nostro percorso all’interno di moltissimi futuri possibili.
Questo post è un ‘breve’ racconto sui 3 giorni del Product Ownership Camp 2021 a Borgo Lanciano, dove si è parlato di Agile, Product Management, Coaching e molto altro. Il PO Camp Italy è Organizzato dai volontari dell’associazione Italian Agile Movement ed è giunto alla nona edizione. Il lavoro di Alessandro, Stefano, Gabriele, Fabio e di tutti gli altri organizzatori è stato fantastico, come eccezionale è stata la location (che non conoscevo).
Troverete alcuni spunti che reputo molto interessanti e, in ultimo, una piccola proposta per il prossimo PO Camp.
Premetto ringraziando Fabio Armani che mi ha invitato a partecipare al mio primo PO Camp (assieme ai colleghi Matteo e Veronica). La parola chiave di quest’evento, per me, è stata exaptation (esattamento o exattamento in italiano).
L’exaptation è la capacità di adattare ad una nuova finalità una caratteristica (fisica-biologica o mentale) nata per uno scopo diverso. Ad esempio le piume che abilitano gli uccelli al volo nascono con finalità di termoregolazione.
E già sento che la tanta conoscenza acquisita durante questi 3 giorni sarà adattabile e riutilizzabile in contesti molto diversi tra di loro e soprattutto da quello di origine. Faccio qualche esempio perché sia più chiaro per chi avrà voglia di leggere.
Il marketplace
Tutto ha avuto inizio al Marketplace: un “non luogo” dove si mercanteggiano i contenuti (ognuno propone argomenti che vuole affrontare o che vuole che altri affrontino) per organizzare l’un-conference, una non conferenza senza programma predefinito e senza regole troppo stringenti, per stimolare creatività e partecipazione.
La base di tutto è la legge dei 2 piedi (two-feet law): s’incentiva a sbirciare in giro alle sessioni senza paura di dover restare alla fine e addirittura sì potrebbe anche decidere di non partecipare affatto.
Tutto questo funziona e si potrebbe applicare a qualunque programma che normalmente immaginiamo organizzato monoliticamente e metodicamente. Rispetto ad altre un-conference a cui avevo partecipato, qui i principi sono stati rispettati in modo ferreo e nulla era pianificato.
Agile Music
Fabio Armani, in un suo talk davvero coinvolgente, ha parlato di mindset agile applicato alla creazione/produzione musicale. Ovviamente questo apre all’applicabilità del mindset in qualunque ambito di produzione creativa, magari con qualche revisitazione dei 4 valori dell’agile manifesto.
Probabilmente è facile intuire per tutti quanti conoscono un po’ di musica quanto sia vicino il concetto di interplay al mantra dell’adaptation della business agility.
Continuous Disclosure
Raffaele Colace di 20Tab ha raccontato il suo punto di vista su come introdurre un mindset agile in un’azienda, portando la propria esperienza. Centrale in tutto il discorso è stato il Ciclo di Deming e il concetto di continuous improvement attraverso la trasparenza all’interno dell’azienda.
Il Ciclo di Deming (o PDCA).
Gli interventi dei partecipanti hanno aggiunto ulteriore valore consigliando, a chi come noi sta per affrontare una transizione, alcune buone prassi:
lead by example e non un cambiamento calato dall’alto
un gruppo di sostenitori e non solo un gruppo di change agents
mantenere un cambiamento graduale e non a scatti
focus sull’outcome e non sul metodo
iniziare dal basso (dall’operatività) ma con un supporto silenzioso del management
condividere continuamente (anche con gli information radiator https://www.agilealliance.org/glossary/information-radiators/)
Gli “imbucati” del Backlog
L’intervento di Stefano Cocci si è focalizzato sostanzialmente sugli interventi AGT (a gamba tesa). Ok, finamola qui con gli acronimi.
Gli interventi a gamba tesa sono quelli che rendono difficoltoso il lavoro vero e proprio. Possono arrivare dall’esterno o dall’interno del gruppo di lavoro, ma ancora peggio potrebbero arrivare da stakeholder esterni non identificati all’inizio. È importante quindi fin da subito portare al tavolo chi è incaricato di FARE le cose (gli operativi) e sentire sempre “gli utenti” ovvero mappare tutti gli stakeholder.
L’intervento di Francesco ha aggiunto uno strumento al toolbox dei partecipanti (almeno per chi come me non lo conosceva): la matrice di interesse vs potere.
Matrice Interesse vs Potere (appunti)
Altrettanto interessante è stata la rappresentazione che sempre Francesco ha fatto della sfera di influenza vs deliverables.
Problema e Soluzione (appunti)
Il tema centrale – in cui mi ritrovo moltissimo – penso sia che troppo spesso ci concentriamo sui deliverables invece che sui goals. E questo è una conseguenza naturale del fatto che spesso gli esperti non conoscono sufficientemente il dominio del problema. Anzi, quasi sempre…
gli esperti fondano la propria conoscenza sulla soluzione e sul know-how tecnico di come si realizzano i deliverables invece che sulla conoscenza del problema
Refinement
Danilo Pasqualini ha guidato una tavola rotonda molto più verticale su un processo ongoing della metodologia Scrum: il Product Backlog Refinement (o solo refinement, precedentemente chiamato anche grooming). Il refinement è, cito la scrum guide:
“[…] l’azione di aggiungere dettagli e stime e di riordinare gli item del product backlog. È un processo continuativo nel quale il Product Owner e il Team collaborano sui dettagli degli item del backlog”
Refinement secondo la Scrum Guide.
Sono emerse una serie di best practicesul refinement applicate dalle persone intervenute alla tavola rotonda nel proprio lavoro quotidiano ed ha assunto uno spazio cruciale nella conversazione il cosiddetto ping-pong time: il tempo impiegato a recuperare tutte le informazioni necessarie ad iniziare una lavorazione.
Si è ribadito che un saldo criterio per definire quali item del backlog possono essere lavorati è quello dato dall’acronimo INVEST (independent, negotiable, valuable, estimatable, small, testable).
La figura del product owner testimonia ovviamente la centralità del prodotto all’interno del mindset agile. La centralità del prodotto significa voler creare un team di ‘missionari’ votati alla qualità realizzativi piuttosto che ‘mercenari’ che si limitano a ‘lavorare’. Tale approccio travalica i limiti del prodotto in senso stretto. Questo significa privilegiare l’outcome all’output ma addirittura pensare ad un impact più che un outcome: il product owner (o alcuni direbbero product manager) vuole migliorare il mondo.
Experiment
Stefano Leli ha proposto una session dedicata ad uno dei principali pilastri del mindset agile: la volontà/capacità/possibilità di fare esperimenti. Esperimenti misurabili, certo, magari in modo continuativo, ma soprattutto basati su ipotesi falsificabili.
Perché un esperimento abbia senso, dev’essere ideato e strutturato per far sì che metta in discussione l’ipotesi che si vuole provare, così da avere delle solide basi nel caso in cui l’esperimento abbia successo oppure invalidare l’ipotesi in modo robusto nel caso in cui fallisca.
L’esperimento inoltre dev’essere gestito seriamente con una durata definita, un perimetro di controllo e una misurabilità continuativa.
La sperimentazione è sfidante: quali aziende davvero si possono permettere di sperimentare liberamente?
Decision Making
Francesco Racanati ha messo in dubbio le convinzioni di tutti noi sul decision making, sulla scorta del libro Adaptive Decision Making di Gary Klein.
Lo studio di Klein si è basato su contesti in cui le decisioni vengono prese in emergenza e in modo istantaneo e sembra mettere in discussione quanto propugnato da Kahnemann e Tversky relativamente al processo decisionale umano.
Ma perché questo focus sui processi decisionali? Perché per Francesco (e tutti concordavano)
una delle vere differenze tra un agilista e un non agilista è nel decision making
In particolare, un agilista sa abbracciare il cambiamento e applicare assieme conoscenze tacite e conoscenze esplicite – quest’ultime le uniche di solito sfruttate dal management tradizionale.
L’argomento è denso e mi auguro che sarà approfondito in successivi incontri della community dell’agile movement.
Coaching
Con tutti i coach presenti, non mi ha stupito trovare un panel dedicato all’analisi delle differenze tra coach e coach agile, proposto e gestito da Daniela ‘Didi’ Rinaldi ed Emanuele Moscato.
L’accordo si è raggiunto su una sostanziale convergenza del concetto di Coach e Agile Coach in termini di ‘coaching’ (il gioco di parole è voluto). L’agile coach rientra infatti nell’ambito del coaching e mantiene l’accountability sul cliente, ‘limitandosi’ a sbloccare un potenziale su un obiettivo definito a monte. Cosa diversa è invece il‘consulente agile che è un attore del cambiamento e ne definisce i passi in modo più serrato e più calato dall’alto. A noi, aziende in fase di transizione, comprendere di cosa abbiamo bisogno. Un’idea? Forse entrambi e magari in fasi diverse.
Retrospective
L’evento non poteva che chiudersi con una retrospective in stile ‘Glad – Sad – Mad’. I commenti, raccolti in post-it giganti saranno l’input per la prossima iterazione del PO Camp.
PO Camp X
A proposito, il prossimo sarà il PO Camp X (ovvero dieci) e promette di alzare il livello: maggiore comunicazione esterna, migliore networking tra i partecipanti e una struttura ancora più leggera.
Cosa mi piacerebbe trovare l’anno prossimo?
A beneficio dei ‘nuovi’ ma anche dei ‘veterani’, nella magnifica location di Borgo Lanciano (confermata per il 2022), si potrebbe organizzare un’accoglienza esplorativa, una sorta di induction ‘forte’. Mi aspetterei un’accoglienza ridotta al minimo e una scoperta della non-struttura dell’unconference con una sorta di caccia al tesoro. Ovvero: prese le chiavi della stanza una serie di indizi dovrebbe far convergere gli invitati nella location della prima sessione di marketplace senza che ci sia nulla di predefinito e organizzato. Un serious game che permetta a tutti ancora di più di immergersi nel mindset giusto per 3 giorni di esplorazione. E poi, ovviamente, aperitivo in piscina come premio finale.
Mai come quest’anno mi sono trovato a riflettere sul significato della parola fiducia. In ambito lavorativo ma anche personale. E quest’anno dobbiamo avere fiducia negli altri per uscire da una crisi epocale come poche altre nella storia dell’umanità. Provo a cercare conforto nell’analisi del significato stesso della parola.
Il primo termine che mi viene in mente è l’inglese Trust.
trust | trʌst |
In inglese Trust è qualcosa o qualcuno in cui avere fede a causa dell’affidabilità, della verità o di una qualche abilità incontrovertibile. Questo senso di fiducia è così forte che grazie ad essa un’essere umano acquisisce una posizione dominante. Ma è anche la fiducia di chi crede in Dio: “In God We Trust” è scritto sulle banconote americane. Sembra che sia una parafrasi di un salmo dell’Antico Testamento.
La banconota da 1 Dollaro con “In God We Trust”.
Trust in inglese è un termine anche legale: il Trust indica un rapporto giuridico nel quale una persona amministra dei beni per conto di terzi, un sistema giuridico della common law che indica qualcosa di più rispetto alla fiducia, un affido (o affidamento). Ma Trust assume un significato negativo, e probabilmente più noto, quando è inteso come una coalizione di imprese che unite vogliono limitare la concorrenza. E infatti parliamo di antitrust quando si configura una situazione di monopolio. Curioso che da una fiducia quasi sacra alla coalizione monopolistica il passo sia così breve.
Ma l’inglese ha tante parole molto specifiche e non ci può dare grandi soddisfazioni etimologiche. Per quello, c’è il greco antico. E infatti esiste in questa lingua una parola ricca di significati, tra cui fiducia.
πίστις | pistis |
La parola greca Pistis ha come significato proprio fiducia, la fiducia che si può dare, guadagnare, ma comunque una fiducia importante. Tanto che in Aristotele diventa fede, convinzione saldissima – in qualcosa o in qualcuno. Fin qui, il significato è simile a quello inglese, tanto che la Pistis è la fede religiosa e la garanzia ‘contrattuale’, un’assicurazione, una promessa e addirittura un giuramento. Questa parola in latino diventa Fides, la personificazione della lealtà, la Dea del pantheon romano che ha il suo tempio sul Campidoglio. Pensateci, la lealtà è ciò che ispira la fiducia: siamo passati in un battibaleno da un punto di vista soggettivo ad uno oggettivo.
La Dea Fides latina.
Tornando ai Greci, possiamo scovare qualche ulteriore significato di questa magnifica parola nei dialoghi platonici. Platone ci parla di Pistis quando ci delinea la sua Teoria della conoscenza, nel libro VI de La Repubblica. Secondo Platone, la conoscenza si articola in 2 stadi: l’opinione (δόξα) e la scienza propriamente detta (ἐπιστήμη). Ciascuno di questi 2 stadi è suddiviso in 2 parti: questa quadripartizione della conoscenza è raccontata metaforicamente nel celebre Mito della Caverna.
All’inizio del percorso della conoscenza gli uomini sono come prigionieri incatenati in una caverna buia, bloccati cosicché possano osservare solo il muro davanti a sé, dove sono proiettate da un grande fuoco delle ombre di forme che rappresentano oggetti, animali, piante o persone. Queste immagini sono le sole cose che possiamo conoscere in questo stadio, definito immaginazione (Εἰκασία). I prigionieri farebbero soltanto un piccolo passa avanti se rivolgessero l’attenzione direttamente alle forme che generavano tali ombre, perché resterebbero ancora nella caverna. Questa fase è ancora una conoscenza immatura, perché i prigionieri permangono all’interno della Caverna. Questa è la fase della Fede (Πίστις), ancora legata al divenire dell’esistenza e quindi lontano dall’essere scienza in quanto ricerca intellattuale.
Non dobbiamo stupirci: Platone conferiva maggiore importanza alle idee, agli archetipi, che non alle cose – che alla fine sono soltanto dei simulacri. Sembra quasi un declassamento rispetto all’altezza del termine Fiducia, eppure a ben vedere è un punto di vista che ne coglie un aspetto essenziale.
La Pistis di Platone è un atto di fede che non può essere “verificato” intellettualmente. Ed è questa la sua magia. La fiducia non ha a che fare con delle valutazioni razionali e intellettuali: quando diamo o chiediamo fiducia, lo facciamo con il cuore.
In questo senso, quest’anno mi ha insegnato che la fiducia è davvero un atto di fede. E per questo è così importante alimentarla. Perché fidarsi significa credere negli altri e dar loro una possibilità. È vero, è un rischio. Eppure tale fiducia innesca una serie di reazioni positive che non hanno nulla a che fare con la valutazione razionale del rischio. La fiducia si può perdere ma si può anche recuperare e noi essere umani siamo in grado di avvertire quando c’è o quando manca.
Ci sono poche cose più belle di un atto di fiducia incondizionata: pensate alla fiducia tra amanti o tra genitori e figli. È proprio quando un bambino è ‘in fiducia’ che inizia a camminare da solo.
Quante fantastiche cose potremmo fare, come umanità, se solo ci fosse più fiducia negli altri?
La risposta potrebbe sembrare semplice. Ma comincio ad avere dubbi che l’uso senza limiti della tecnologia sia davvero quello che ci serve adesso, tutti chiusi dentro casa per il lockdown da Coronavirus.
Intendiamoci, lo so benissimo che senza Houseparty l’aperitivo virtuale non si può fare, che Zoom ci ha finalmente abilitati allo smartworking, Disney+ è una figata e che i webinarsu Webex sono l’unico modo che ci resta per imparare qualcosa (per ragazzi e adulti). Io sono un fan e assiduo utilizzatore di tutte queste tecnologie, anche e soprattutto di Slack e di Telegram.
E tutto questo va benissimo, perché connetterci con le altre persone è fondamentale, soprattutto durante quest’epidemia di Covid–19.
Eppure c’è qualcosa che non mi torna: perché dopo oltre un mese di lockdown mi sento sempre fermo al punto di partenza?
Dicono che cambiare il punto di vista, il frame, serva ad analizzare meglio la questione. Provo a farlo elencando qualche esempio.
Primo Esempio. In questo periodo leggo molti libri su carta – ne ho un sacco a casa pronti ad essere sfogliati e mai nemmeno iniziati – il che mi sta dando una soddisfazione inaspettata. Nel frattempo ho anche iniziato parecchi ebooks: non ne ho ancora finito nessuno.
Secondo Esempio. Provo a giocare con i videogame con i miei figli per condividere qualche momento di gioco con loro e perché mi diverte. Ma non è nulla in confronto alle chiacchierate a letto con Isabella o alla “lotta” con il piccolo Ettore.
Terzo esempio. Sto continuamente in videocall per motivi personali e lavorativi: mai come ora “vedo” così tante persone. Eppure le cose più importanti in questo periodo le ho concordate e decise al telefono. E nulla, adesso, è meglio di una telefonata con un vecchio amico.
Ora che siamo in lockdown, la fisicità primitiva e le tecnologie “analogiche” sembrano vincere sistematicamente contro le diavolerie più recenti. Sarà un caso? Non credo.
Penso che questo fenomeno abbia qualcosa a che fare con il bisogno di un ritorno alle funzioni basilari del nostro cervello e di creare qualcosa di tangibile per sentirsi appagati.
Il ritorno alle “origini” è facile da spiegare: la nostra fisicità è messa sotto assedio nell’era del distanziamento sociale. Ma siamo chiamati a resistere: siamo dotati di un corpo fisico e dobbiamo usarlo in tutti i modi possibili per sentirci vivi e non impazzire.
Invece il bisogno di essere “creativi” è più subdolo: nell’era dell’iperinformazione gli input dall’esterno sembrano infiniti. Ma forse in modo inconscio abbiamo capito che “guardare” i contenuti non ci basta più e per fare un uso soddisfacente delle tecnologie a nostra disposizione dobbiamo “creare” qualcosa di veramente nostro. Può essere un video, una foto, un disegno, una canzone o un post come questo. Guardare i post degli altri non ci basta più, il rischio è stare ore davanti agli schermi solo per sentirci svuotati.
Allora, i miei buoni propositi per il prossimo mese di lockdown saranno quelli di privilegiare la fisicità dove possibile – anche magari tornando agli appunti con carta e penna – e utilizzare le tecnologie a mia disposizione per creare nuovi contenuti di valore piuttosto che limitarmi a guardarli o leggerli passivamente.
Appena un mese fa guardavamo con un po’ di distacco le immagini dell’epidemia di Covid-19 dalla Cina sperando di essere sufficientemente lontani. Non lo eravamo.
Ma cosa sta succedendo? Cosa ci sta succedendo?
Adesso ci troviamo chiusi in casa oppure in fila al supermercato in città altrimenti vuote, spaventati da un nemico invisibile che ti colpisce all’improvviso. Siamo nella stessa situazione dei nostri fratelli cinesi. E francesi, spagnoli o americani. L’unica colpa sembra essere stati troppo vicini ai nostri cari, aver stretto troppe mani o aver dato troppi abbracci. Il destino sembra crudele.
C’è una via d’uscita?
L’epidemia di Covid-19 farà il suo corso, che sarà doloroso ma inevitabile. E allora ci sarà una rinascita. Torneremo a fare cose adesso impensabili, come un picnic al parco.
Ma la sfida è non cercare la via d’uscita e cercare di vivere appieno questa situazione. Sarebbe bello poter raccontare che la parola cinese wēijī significa crisi e allo stesso tempo opportunità, perché racconterebbe esattamente la situazione attuale.
Il termine wēijī invoca sia il concetto di “crisi” che quello di “opportunità”. Questa affermazione è mutuata dalla errata convinzione che i due caratteri significhino uno “pericolo” e l’altro “opportunità”. Molti linguisti considerano questa idea una colorita pseudoetimologia, poiché jī da solo non significa necessariamente “opportunità”.
Covid-19: Crisi e Opportunità
La Crisi è sotto gli occhi di tutti, non c’è bisogno di dirlo. E sarà una crisi sanitaria adesso ed economia da ora in poi. Le prospettive si fanno ogni giorno più tragiche, non ha senso nascondercelo.
Purtroppo però troppo pochi guardano il lato opposto: l’Opportunità. Opportunità di fare quelle cose che non abbiamo mai fatto, a casa o sul lavoro (che poi oggi, con lo smartworking, sono un po’ la stessa cosa). Opportunità di compiere grandi gesti di solidarietà e di confrontarci con le nostre paure più grandi.
Per me, che soffro di una leggera ipocondria, la situazione non è semplice (mi misuro la temperatura ogni mattina anche se sono chiuso in casa da oltre 2 settimane) e non voglio dirvi che sono felice. Ma voglio dirvi che invece cerco di accettare quello che ho e di godermelo in ogni momento. Perché non so quando questo finirà.
Cerco di godermi l’Adesso perché non so neanche come tutto questo finirà. V’invito a fare lo stesso. E a guardare un po’ meno i TG.
Se vi va, racconto come cerco di affrontare la situazione in alcuni video che sto postando sul mio canale Youtube. State bene e state a casa.
Aggiornamento 18.03 – Perchè proprio l’Italia? Perché così duramente? Se ve lo state chiedendo, uno studio potrebbe avere la riposta: in Italia gli anziani entrano molto più spesso in contatto con la popolazione più giovane. Nel nostro Paese molti figli grandi abitano ancora a casa dei genitori e il nucleo familiare si frequenta di più rispetto alla Germania o ai Paesi Scandinavi, ad esempio. Per approfondire
Aggiornamento 01.04 – Non è un pesce d’aprile: la Carnegie Mellon University ha messo a punto un sistema di intelligenza artificiale che cerca di misurare la capacità polmonare attraverso il microfono e quindi stimare la probabilità di avere patologie come il Covid-19. Questa è l’intelligenza artificiale che mi piace. Qui per provare l’app.
Il Coronavirus, com’era prevedibile, è arrivato anche in Italia. Sarà responsabilità delle istituzioni arginare l’epidemia. Ma cosa possono fare le aziende per tutelarsi?
Primo obiettivo: tutelare la sicurezza e salute dei lavoratori
Ai sensi del D.lgs. 81/2008 “è in capo al datore di lavoro, l’obbligo di tutelare i propri dipendenti dal rischio biologico eventualmente connesso alla prestazione lavorativa”. Ovvero, è responsabilità dell’azienda tutelare la salute dei propri dipendenti e collaboratori in casi come questo.
Un altro ruolo molto importante è quello di informare e formare tutta la forza lavoro sulle misure precauzionali adeguate.
Il modo migliore per tranquillizzare le persone non è minimizzare mentendo o trattarle come dei bambini di cinque anni, ma spiegargli esattamente come stanno le cose. Per farlo però bisogna conoscere bene l’argomento. Rem tene verba sequentur. https://t.co/spEKOxeNss
Un’ottima fonte di informazioni certe e verificate è il sito del Ministero della Salute. Ci sono anche diversi video che è opportuno diffondere il più possibile.
Il punto di vista dell’Impresa
Per le aziende, soprattutto quelle più piccole, è fondamentale mantenere un minimo livello di produttività. In Italia ci sono tantissime PMI che possono rischiare molto per lunghi periodi di chiusura temporanea del luogo di lavoro, come nel caso estremo di quarantena forzata.
Più in generale, un’azienda deve darsi alcune priorità:
Garantire la sicurezza dei lavoratori
Mantenere il più possibile un livello di servizio ai clienti
Mantenere in generale un buon livello di produttività
Supportare i partner in difficoltà (clienti e fornitori)
La prima soluzione più ovvia è quello dello smartworking, legale e regolamentato anche in Italia, ma che spesso viene visto ‘male’ dal datore di lavoro. E invece è questo il momento per introdurre il lavoro da casa per tutti, cercando anche di dotare tutti i dipendenti delle attrezzature adeguate per farlo (computer, accessi da remoto etc.).
Quali precauzioni e protocolli adottare in caso di Coronavirus?
In generale, le precauzioni sono quelle che abbiamo visto ovunque in questi giorni e sono ben riassunte in un ottimo poster sul Nuovo Coronavirus realizzato dal Ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di Sanità.
Il poster sul Coronavirus realizzata dal Ministero della Salute e dall’ISS
Sempre sul sito ci sono anche le risposte alle domande più comuni sul Coronavirus.
Ma sarebbe anche utile che le aziende si dotassero di un vero e proprio protocollo nel caso si trovassero in zone colpite da ordinanze di pubblica sicurezza particolarmente restrittive. Molte aziende in Lombardia e Veneto si sono già attrezzate.
Alcune idee per un regolamento aziendale:
introdurre lo smartworking e limitare tutti gli spostamenti/trasferte
definire clienti o servizi prioritari che devono essere tutelati maggiormente
comunicare a clienti e partner i protocolli adottati per garantire reperibilità e un adeguato livello di trasparenza
definire priorità amministrative per tutelare gli aspetti finanziari della gestione operativa
identificare dei responsabili all’interno dei gruppi di lavoro per coordinare provvedimenti ulteriori
Infine, da comunicatore, raccomanderei anche di mantenere sempre il più possibile un livello di informazione costante e trasparente su quello che l’azienda sta facendo nel corso dell’emergenza.
Aggiornamento del 23.02 – Diverse persone mi hanno chiesto cosa fare in questi giorni per contribuire alle misure di contenimento, soprattutto se non ci si trova nelle zone rosse ma magari si lavora con aziende in Piemonte, Lombardia o Veneto. La precauzione più ovvia è ovviamente quella di limitare il più possibile gli spostamenti e le trasferte in quelle zone e sostituire gli incontri de visu con le conference call. È un buon modo per non creare ansie inutili ma allo stesso tempo mantenere in piedi tutte le attività lavorative programmate.
Aggiornamento del 24.02 – Piano di qualche azienda ha cominciato a riflettere sull’impatto di una quarantena forzata sui reparti eCommerce delle aziende. Un bell’articolo di Digiday ad esempio racconta che in Cina molte aziende hanno sostituito attività di comunicazione digitali con quelle fisiche (Outdoor, eventi etc.) e gli eCommerce hanno avuto un boom, perché le persone si fanno consegnare a casa tutto quello che prima acquistavano nel negozio. Mi viene in mente un semplice consiglio per le aziende: trovate modo di garantire la robustezza delle operazioni lato eCommerce e di coprire i bisogni dei vostri clienti in modo alternativo agli incontri fisici che saranno fortemente impattati dalle diverse politiche di sicurezza sanitaria.
Aggiornamento del 25.02 – Ho registrato una puntata del podcast Il Bernoccolo assieme ad Andrea Ciulu sul tema Nuovo Coronavirus. Potete trovarlo su Apple Podcasts o Spotify, oppure farlo partire dal player qui sotto.
Aggiornamento del 28.02 – Un bell’articolo su HBR spiega cosa le aziende devono fare per prepararsi. Le cose più interessanti sono in fondo: il Covid-19 non sarà un caso isolato e cerchiamo di imparare qualcosa da questa situazione di emergenza.
Aggiornamento del 02.03 – Vodafone ha fatto un bel regalino ai clienti business: giga illimitati a supporto dello smartworking. Davvero una bella mossa!
Aggiornamento 07.03 – Molte aziende si stanno mobilitando per aiutare gli italiani ai tempi del Coronavirus: arrivano donazioni e agevolazioni da Esselunga, Unicredit, Xiami, TIM, Eni, UnipolSai e molte altre. Bella l’iniziativa di Google che rende gratuite le funzioni avanzate di videoconferenza Google Meet per gli utenti G Suite Business e G Suite Education. L’imperativo è andare avanti e contribuire il più possibile a frenare il contagio restando a casa e limitando ogni spostamento.
Aggiornamento 11.03 – Nuova puntata del Bernoccolo sugli eventi cancellati o posticipati. Cosa faremo in questi mesi? Potete trovarlo su Apple Podcasts o Spotify.
Molti parlano di Vision. La definirei come qualcosa che stabilisce cosa è importante per un’azienda sul breve, medio e lungo termine. È una sorta di inclinazione (o una fissazione?) che permette di compiere alcune scelte invece di altre.
Lo spiega in modo conciso e efficace Simon Sinek nel video che riporto qui sotto.
Non è detto che la visione sia sempre ‘alta’, può capitare che in alcune aziende le scelte siano orientate puramente al profitto di breve termine. In tal caso l’azienda diventa miope e non può andare molto lontano.
Perché la Vision serve in un’azienda?
In un’azienda ogni giorno vengono prese molte decisioni. E quasi tutte hanno un’impatto sul presente e sul futuro dell’azienda stessa. Come far sì che tali decisioni vadano tutte nella stessa direzione? Eh già, la vision.
Non è però facile far sì che tutti, ma davvero tutti, condividano la vision dell’azienda in cui lavorano. Qualcuno è molto motivato da un approccio ‘alto’, qualcun altro invece è più cinico e disilluso. E poi qualche volta parliamo più di Mission (quella sì dovrebbe motivare). Ma non è detto che mission e vision non possano essere la stessa cosa – come ad esempio avviene per Apple (secondo Comparably).
Mission e Vision di Apple secondo il sito Comparably.
Il vero ruolo della Vision: backcasting
Una visione solida permette al management di passare dal forecasting al backcasting. Invece di cercare di prevedere come sarà il futuro, è più utile ed efficace:
immaginare un obiettivo (un master plan da qui a 10 anni come fa Tesla, ad esempio);
a partire dall’obiettivo immaginare una serie di processi decisionali, regole e pianificazioni utili ad arrivare a quell’obiettivo;
mantenere degli step intermedi per verificare che la visione di lungo termine sia rispettata.
Il backcasting parte dalla vision per pianificare tutte le scelte.
In questo modo possiamo influenzare davvero ogni scelta non tanto perché tutti in azienda abbiano la visione stampata nella mente, ma perché sono le stesse regole del gioco a fare in modo che gli obiettivi di tale visione possa essere raggiunti.
Le innovazioni tecnologiche che mi hanno cambiato la vita dal 2010 al 2020
Di solito non scrivo post di inizio anno, ma questa volta farò un’eccezione. L’occasione è ghiotta: sta finendo un decennio e stiamo entrando nei mitici anni ’20. Siamo nel 2020!
Un secolo fa iniziavano gli anni del Jazz checi portarono dritti dritti al drammatico 1929. Detto tra noi, speriamo che questa volta ci vada meglio.
Non mi capita spesso di pensare al passato ma vista l’età (mi avvicino ai 37), è giunto il momento d’iniziare. Gli ultimi 10 anni — e ancora di più gli ultimi 20 anni — sono stati rivoluzionari. La vita di noi tutti è cambiata così tanto che facciamo fatica a rendercene conto. Sono nati nuovi mezzi di comunicazione e nuove tecnologie hanno avuto un impatto estremamente profondo sulle nostre vite.
Nel 2009 il mondo era un pochino diverso, più di quanto ci sembri a prima vista. Non c’erano gli iPad, gli smartphone erano un po’ più piccoli, Alexa era un nome come un altro, Tesla era solo un inventore del 1800 e Facebook era roba da giovani.
Anche per quello che mi riguarda personalmente, di cose ne sono cambiate parecchie. Rientrato da Toronto ripresi a fare il lavoro che adoro — con un bel progetto per HRS.com — e soprattutto conobbi la donna che amo e che mi ha dato 4 figli (in 10 anni succedono un sacco di cose!).
Facciamola questa lista: ecco le dieci innovazioni tecnologiche che in un modo o nell’altro mi hanno cambiato la vita negli ultimi 10 anni.
iPad è stato all’inizio poco più di uno smartphone con lo schermo gigante ma man mano è diventato il principale strumento tecnologico che uso durante la giornata: per prendere appunti, svolgere tutti i task per cui uso anche il computer, leggere libri, giornali e guardare film. Ah, poi Fortnite gira molto meglio che sul Mac.
Il Cloud sia per utilizzo personale che lavorativo (adoro G Suite!) è stata ‘una salvata’. Quanti documenti recuperati, quante foto ritrovate e quante presentazioni chiuse oltre l’ultimo momento (durante la presentazione, non appena prima :D).
Native advertising è stata la grande innovazione nella pubblicità dell’ultimo decennio e sembra poter cambiare per sempre il modo in cui le persone fruiscono dei contenuti. Un po’ è stato così: su Facebook è presente solo pubblicità ‘tecnicamente’ nativa (perché assomiglia ai contenuti circostanti). E per anni con Arkage in Italia siamo stati pionieri del ‘Native’. Che poi questa innovazione sia stata in generale un bene per l’umanità, non ne sono così convinto, forse perché è stata una rivoluzione soltanto a metà.
Blockchain è un’innovazione che mi ha aperto la mente: la possibilità di rendere unici gli ‘oggetti’ digitali al pari di quelli ‘fisici’ significa che potremmo disegnare mondi virtuali che avranno le stesse regole del mondo reale. Non si tratta soltanto di criptovalute: disruptive!
Netflix è LA TV della casa: i miei 4 bimbi non sanno cosa significhi guardare un programma televisivo interrotto dalla pubblicità o con un orario d’inizio predefinito. Intere generazioni di bambini stanno crescendo su questo paradigma: streaming e on-demand.
Music Streaming è il modo in cui ascolto musica da anni: prima è stato Spotify, poi Apple Music e ora Amazon Music (e TIDAL). L’idea di comprare un CD non mi manca per niente, però ricordo l’emozione del primo acquisto su iTunes (era questo album dei Prodigy).
Amazon Prime è un’innovazione più subdola e meno visibile ma è diventato il modo ‘predefinito’ con cui praticamente facciamo il 90% degli acquisti — spesa inclusa grazie al fantastico Amazon Prime Now.
Apple Watch è il mio compagno di running perfetto: pesa poco, monitora i parametri vitali e mi motiva ad allenarmi. È davvero uno strumento di fitness prezioso e non voglio immaginare come sarebbe riallenarmi senza.
B Corp è una certificazione che come Arkage abbiamo ottenuto nel 2017 ed è basata su un assessment (BIA) di valutazione dell’impatto di un’azienda su pianeta-persone-società. Questo algoritmo ha cambiato il mio modo di pensare alle imprese come motori di cambiamento e d’impatto positivo. Grazie a Paolo di Cesare per avermi fatto ‘scoprire’ questa innovazione.
Alexa è entrata nella casa poco tempo fa, in relazione ad esempio al’iPad, ma ha profondamente cambiato il modo in cui tutta la mia famiglia ascolta la musica (perfino il piccolo Ettore, 4 anni, ormai chiede le canzoni ad Alexa) e non solo — usiamo Alexa anche per le notizie, le tabelline o il meteo ad esempio.
Tutte queste innovazioni sono decisamente meno ‘fisiche’ di quelle del decennio precedente (a parte iPad e Apple Watch, hanno a che fare più con il software che con l’hardware) e penso che abbiano a che fare soprattutto con il tempo che trascorro con le persone che amo (in famiglia) o a cui voglio bene e di cui ho stima (al lavoro).
E dal 2020 al 2030?
I prossimi dieci anni potranno davvero essere incredibili. La sfida sarà, un po’ per tutti a mio avviso, quella di utilizzare la vita privata e la vita lavorativa per fare del bene, per il pianeta e per noi tutti. Magari abbandonando l’ossessione della distinzione netta e quantitativa del work-life balance e invece valorizzando la qualità del tempo che trascorriamo assieme agli altri.
Nel nuovo decennio vorrei portare con me tutto lo stupore e la meraviglia delle grandi novità che ho vissuto in questi ultimi anni e cercare di coinvolgere positivamente più persone possibile.