Il cambiamento è necessario, nel lavoro come nella vita. Qualcuno si spinge a sostenere che la capacità di evolvere per adattarsi al cambiamento è la prima e più importante caratteristica di un’azienda che vuole avere successo.
Chi mi conosce sa bene che adoro i cambiamenti, perché intravedo le potenzialità incredibili che si nascondono dietro l’enorme fatica necessaria per mettere in discussione lo status quo.
Ma la sostanza della parola cambiamento? L’etimologia greca fa intuire che il sostantivato (-mento) non rende quanto il semplice verbo “cambiare”, dal greco κάμπτω ovvero curvare, piegare ma anche curvarsi, voltarsi.
L’essenza del cambiamento è ben catturata dalla prima persona singolare “cambio” che in italiano, come change in Inglese, è sia intransitivo (cambio io stesso) che transitivo (cambio un’idea o un’azienda, o persino qualcuno).
Il cambiamento richiede innanzitutto che sia il soggetto a cambiare, perché qualcos’altro possa essere cambiato.
Il mio augurio è che possiate affrontare qualunque cosa nella vita con la consapevolezza di potervi voltare verso le novità, in prima persona, e diventare abili a cambiare voi stessə.
Perché solo chi sa portare il cambiamento dentro di sé può pensare di portare cambiamento nel mondo.
Agile è un mindset: non è una metodologia né un’insieme di nozioni, non è fatto di pratiche né di processi. Essere agili significa abbracciare il cambiamento. Il cambiamento è il nostro percorso all’interno di moltissimi futuri possibili.
Questo post è un ‘breve’ racconto sui 3 giorni del Product Ownership Camp 2021 a Borgo Lanciano, dove si è parlato di Agile, Product Management, Coaching e molto altro. Il PO Camp Italy è Organizzato dai volontari dell’associazione Italian Agile Movement ed è giunto alla nona edizione. Il lavoro di Alessandro, Stefano, Gabriele, Fabio e di tutti gli altri organizzatori è stato fantastico, come eccezionale è stata la location (che non conoscevo).
Troverete alcuni spunti che reputo molto interessanti e, in ultimo, una piccola proposta per il prossimo PO Camp.
Premetto ringraziando Fabio Armani che mi ha invitato a partecipare al mio primo PO Camp (assieme ai colleghi Matteo e Veronica). La parola chiave di quest’evento, per me, è stata exaptation (esattamento o exattamento in italiano).
L’exaptation è la capacità di adattare ad una nuova finalità una caratteristica (fisica-biologica o mentale) nata per uno scopo diverso. Ad esempio le piume che abilitano gli uccelli al volo nascono con finalità di termoregolazione.
E già sento che la tanta conoscenza acquisita durante questi 3 giorni sarà adattabile e riutilizzabile in contesti molto diversi tra di loro e soprattutto da quello di origine. Faccio qualche esempio perché sia più chiaro per chi avrà voglia di leggere.
Il marketplace
Tutto ha avuto inizio al Marketplace: un “non luogo” dove si mercanteggiano i contenuti (ognuno propone argomenti che vuole affrontare o che vuole che altri affrontino) per organizzare l’un-conference, una non conferenza senza programma predefinito e senza regole troppo stringenti, per stimolare creatività e partecipazione.
La base di tutto è la legge dei 2 piedi (two-feet law): s’incentiva a sbirciare in giro alle sessioni senza paura di dover restare alla fine e addirittura sì potrebbe anche decidere di non partecipare affatto.
Tutto questo funziona e si potrebbe applicare a qualunque programma che normalmente immaginiamo organizzato monoliticamente e metodicamente. Rispetto ad altre un-conference a cui avevo partecipato, qui i principi sono stati rispettati in modo ferreo e nulla era pianificato.
Agile Music
Fabio Armani, in un suo talk davvero coinvolgente, ha parlato di mindset agile applicato alla creazione/produzione musicale. Ovviamente questo apre all’applicabilità del mindset in qualunque ambito di produzione creativa, magari con qualche revisitazione dei 4 valori dell’agile manifesto.
Probabilmente è facile intuire per tutti quanti conoscono un po’ di musica quanto sia vicino il concetto di interplay al mantra dell’adaptation della business agility.
Continuous Disclosure
Raffaele Colace di 20Tab ha raccontato il suo punto di vista su come introdurre un mindset agile in un’azienda, portando la propria esperienza. Centrale in tutto il discorso è stato il Ciclo di Deming e il concetto di continuous improvement attraverso la trasparenza all’interno dell’azienda.
Il Ciclo di Deming (o PDCA).
Gli interventi dei partecipanti hanno aggiunto ulteriore valore consigliando, a chi come noi sta per affrontare una transizione, alcune buone prassi:
lead by example e non un cambiamento calato dall’alto
un gruppo di sostenitori e non solo un gruppo di change agents
mantenere un cambiamento graduale e non a scatti
focus sull’outcome e non sul metodo
iniziare dal basso (dall’operatività) ma con un supporto silenzioso del management
condividere continuamente (anche con gli information radiator https://www.agilealliance.org/glossary/information-radiators/)
Gli “imbucati” del Backlog
L’intervento di Stefano Cocci si è focalizzato sostanzialmente sugli interventi AGT (a gamba tesa). Ok, finamola qui con gli acronimi.
Gli interventi a gamba tesa sono quelli che rendono difficoltoso il lavoro vero e proprio. Possono arrivare dall’esterno o dall’interno del gruppo di lavoro, ma ancora peggio potrebbero arrivare da stakeholder esterni non identificati all’inizio. È importante quindi fin da subito portare al tavolo chi è incaricato di FARE le cose (gli operativi) e sentire sempre “gli utenti” ovvero mappare tutti gli stakeholder.
L’intervento di Francesco ha aggiunto uno strumento al toolbox dei partecipanti (almeno per chi come me non lo conosceva): la matrice di interesse vs potere.
Matrice Interesse vs Potere (appunti)
Altrettanto interessante è stata la rappresentazione che sempre Francesco ha fatto della sfera di influenza vs deliverables.
Problema e Soluzione (appunti)
Il tema centrale – in cui mi ritrovo moltissimo – penso sia che troppo spesso ci concentriamo sui deliverables invece che sui goals. E questo è una conseguenza naturale del fatto che spesso gli esperti non conoscono sufficientemente il dominio del problema. Anzi, quasi sempre…
gli esperti fondano la propria conoscenza sulla soluzione e sul know-how tecnico di come si realizzano i deliverables invece che sulla conoscenza del problema
Refinement
Danilo Pasqualini ha guidato una tavola rotonda molto più verticale su un processo ongoing della metodologia Scrum: il Product Backlog Refinement (o solo refinement, precedentemente chiamato anche grooming). Il refinement è, cito la scrum guide:
“[…] l’azione di aggiungere dettagli e stime e di riordinare gli item del product backlog. È un processo continuativo nel quale il Product Owner e il Team collaborano sui dettagli degli item del backlog”
Refinement secondo la Scrum Guide.
Sono emerse una serie di best practicesul refinement applicate dalle persone intervenute alla tavola rotonda nel proprio lavoro quotidiano ed ha assunto uno spazio cruciale nella conversazione il cosiddetto ping-pong time: il tempo impiegato a recuperare tutte le informazioni necessarie ad iniziare una lavorazione.
Si è ribadito che un saldo criterio per definire quali item del backlog possono essere lavorati è quello dato dall’acronimo INVEST (independent, negotiable, valuable, estimatable, small, testable).
La figura del product owner testimonia ovviamente la centralità del prodotto all’interno del mindset agile. La centralità del prodotto significa voler creare un team di ‘missionari’ votati alla qualità realizzativi piuttosto che ‘mercenari’ che si limitano a ‘lavorare’. Tale approccio travalica i limiti del prodotto in senso stretto. Questo significa privilegiare l’outcome all’output ma addirittura pensare ad un impact più che un outcome: il product owner (o alcuni direbbero product manager) vuole migliorare il mondo.
Experiment
Stefano Leli ha proposto una session dedicata ad uno dei principali pilastri del mindset agile: la volontà/capacità/possibilità di fare esperimenti. Esperimenti misurabili, certo, magari in modo continuativo, ma soprattutto basati su ipotesi falsificabili.
Perché un esperimento abbia senso, dev’essere ideato e strutturato per far sì che metta in discussione l’ipotesi che si vuole provare, così da avere delle solide basi nel caso in cui l’esperimento abbia successo oppure invalidare l’ipotesi in modo robusto nel caso in cui fallisca.
L’esperimento inoltre dev’essere gestito seriamente con una durata definita, un perimetro di controllo e una misurabilità continuativa.
La sperimentazione è sfidante: quali aziende davvero si possono permettere di sperimentare liberamente?
Decision Making
Francesco Racanati ha messo in dubbio le convinzioni di tutti noi sul decision making, sulla scorta del libro Adaptive Decision Making di Gary Klein.
Lo studio di Klein si è basato su contesti in cui le decisioni vengono prese in emergenza e in modo istantaneo e sembra mettere in discussione quanto propugnato da Kahnemann e Tversky relativamente al processo decisionale umano.
Ma perché questo focus sui processi decisionali? Perché per Francesco (e tutti concordavano)
una delle vere differenze tra un agilista e un non agilista è nel decision making
In particolare, un agilista sa abbracciare il cambiamento e applicare assieme conoscenze tacite e conoscenze esplicite – quest’ultime le uniche di solito sfruttate dal management tradizionale.
L’argomento è denso e mi auguro che sarà approfondito in successivi incontri della community dell’agile movement.
Coaching
Con tutti i coach presenti, non mi ha stupito trovare un panel dedicato all’analisi delle differenze tra coach e coach agile, proposto e gestito da Daniela ‘Didi’ Rinaldi ed Emanuele Moscato.
L’accordo si è raggiunto su una sostanziale convergenza del concetto di Coach e Agile Coach in termini di ‘coaching’ (il gioco di parole è voluto). L’agile coach rientra infatti nell’ambito del coaching e mantiene l’accountability sul cliente, ‘limitandosi’ a sbloccare un potenziale su un obiettivo definito a monte. Cosa diversa è invece il‘consulente agile che è un attore del cambiamento e ne definisce i passi in modo più serrato e più calato dall’alto. A noi, aziende in fase di transizione, comprendere di cosa abbiamo bisogno. Un’idea? Forse entrambi e magari in fasi diverse.
Retrospective
L’evento non poteva che chiudersi con una retrospective in stile ‘Glad – Sad – Mad’. I commenti, raccolti in post-it giganti saranno l’input per la prossima iterazione del PO Camp.
PO Camp X
A proposito, il prossimo sarà il PO Camp X (ovvero dieci) e promette di alzare il livello: maggiore comunicazione esterna, migliore networking tra i partecipanti e una struttura ancora più leggera.
Cosa mi piacerebbe trovare l’anno prossimo?
A beneficio dei ‘nuovi’ ma anche dei ‘veterani’, nella magnifica location di Borgo Lanciano (confermata per il 2022), si potrebbe organizzare un’accoglienza esplorativa, una sorta di induction ‘forte’. Mi aspetterei un’accoglienza ridotta al minimo e una scoperta della non-struttura dell’unconference con una sorta di caccia al tesoro. Ovvero: prese le chiavi della stanza una serie di indizi dovrebbe far convergere gli invitati nella location della prima sessione di marketplace senza che ci sia nulla di predefinito e organizzato. Un serious game che permetta a tutti ancora di più di immergersi nel mindset giusto per 3 giorni di esplorazione. E poi, ovviamente, aperitivo in piscina come premio finale.
Mai come quest’anno mi sono trovato a riflettere sul significato della parola fiducia. In ambito lavorativo ma anche personale. E quest’anno dobbiamo avere fiducia negli altri per uscire da una crisi epocale come poche altre nella storia dell’umanità. Provo a cercare conforto nell’analisi del significato stesso della parola.
Il primo termine che mi viene in mente è l’inglese Trust.
trust | trʌst |
In inglese Trust è qualcosa o qualcuno in cui avere fede a causa dell’affidabilità, della verità o di una qualche abilità incontrovertibile. Questo senso di fiducia è così forte che grazie ad essa un’essere umano acquisisce una posizione dominante. Ma è anche la fiducia di chi crede in Dio: “In God We Trust” è scritto sulle banconote americane. Sembra che sia una parafrasi di un salmo dell’Antico Testamento.
La banconota da 1 Dollaro con “In God We Trust”.
Trust in inglese è un termine anche legale: il Trust indica un rapporto giuridico nel quale una persona amministra dei beni per conto di terzi, un sistema giuridico della common law che indica qualcosa di più rispetto alla fiducia, un affido (o affidamento). Ma Trust assume un significato negativo, e probabilmente più noto, quando è inteso come una coalizione di imprese che unite vogliono limitare la concorrenza. E infatti parliamo di antitrust quando si configura una situazione di monopolio. Curioso che da una fiducia quasi sacra alla coalizione monopolistica il passo sia così breve.
Ma l’inglese ha tante parole molto specifiche e non ci può dare grandi soddisfazioni etimologiche. Per quello, c’è il greco antico. E infatti esiste in questa lingua una parola ricca di significati, tra cui fiducia.
πίστις | pistis |
La parola greca Pistis ha come significato proprio fiducia, la fiducia che si può dare, guadagnare, ma comunque una fiducia importante. Tanto che in Aristotele diventa fede, convinzione saldissima – in qualcosa o in qualcuno. Fin qui, il significato è simile a quello inglese, tanto che la Pistis è la fede religiosa e la garanzia ‘contrattuale’, un’assicurazione, una promessa e addirittura un giuramento. Questa parola in latino diventa Fides, la personificazione della lealtà, la Dea del pantheon romano che ha il suo tempio sul Campidoglio. Pensateci, la lealtà è ciò che ispira la fiducia: siamo passati in un battibaleno da un punto di vista soggettivo ad uno oggettivo.
La Dea Fides latina.
Tornando ai Greci, possiamo scovare qualche ulteriore significato di questa magnifica parola nei dialoghi platonici. Platone ci parla di Pistis quando ci delinea la sua Teoria della conoscenza, nel libro VI de La Repubblica. Secondo Platone, la conoscenza si articola in 2 stadi: l’opinione (δόξα) e la scienza propriamente detta (ἐπιστήμη). Ciascuno di questi 2 stadi è suddiviso in 2 parti: questa quadripartizione della conoscenza è raccontata metaforicamente nel celebre Mito della Caverna.
All’inizio del percorso della conoscenza gli uomini sono come prigionieri incatenati in una caverna buia, bloccati cosicché possano osservare solo il muro davanti a sé, dove sono proiettate da un grande fuoco delle ombre di forme che rappresentano oggetti, animali, piante o persone. Queste immagini sono le sole cose che possiamo conoscere in questo stadio, definito immaginazione (Εἰκασία). I prigionieri farebbero soltanto un piccolo passa avanti se rivolgessero l’attenzione direttamente alle forme che generavano tali ombre, perché resterebbero ancora nella caverna. Questa fase è ancora una conoscenza immatura, perché i prigionieri permangono all’interno della Caverna. Questa è la fase della Fede (Πίστις), ancora legata al divenire dell’esistenza e quindi lontano dall’essere scienza in quanto ricerca intellattuale.
Non dobbiamo stupirci: Platone conferiva maggiore importanza alle idee, agli archetipi, che non alle cose – che alla fine sono soltanto dei simulacri. Sembra quasi un declassamento rispetto all’altezza del termine Fiducia, eppure a ben vedere è un punto di vista che ne coglie un aspetto essenziale.
La Pistis di Platone è un atto di fede che non può essere “verificato” intellettualmente. Ed è questa la sua magia. La fiducia non ha a che fare con delle valutazioni razionali e intellettuali: quando diamo o chiediamo fiducia, lo facciamo con il cuore.
In questo senso, quest’anno mi ha insegnato che la fiducia è davvero un atto di fede. E per questo è così importante alimentarla. Perché fidarsi significa credere negli altri e dar loro una possibilità. È vero, è un rischio. Eppure tale fiducia innesca una serie di reazioni positive che non hanno nulla a che fare con la valutazione razionale del rischio. La fiducia si può perdere ma si può anche recuperare e noi essere umani siamo in grado di avvertire quando c’è o quando manca.
Ci sono poche cose più belle di un atto di fiducia incondizionata: pensate alla fiducia tra amanti o tra genitori e figli. È proprio quando un bambino è ‘in fiducia’ che inizia a camminare da solo.
Quante fantastiche cose potremmo fare, come umanità, se solo ci fosse più fiducia negli altri?
Il Coronavirus, com’era prevedibile, è arrivato anche in Italia. Sarà responsabilità delle istituzioni arginare l’epidemia. Ma cosa possono fare le aziende per tutelarsi?
Primo obiettivo: tutelare la sicurezza e salute dei lavoratori
Ai sensi del D.lgs. 81/2008 “è in capo al datore di lavoro, l’obbligo di tutelare i propri dipendenti dal rischio biologico eventualmente connesso alla prestazione lavorativa”. Ovvero, è responsabilità dell’azienda tutelare la salute dei propri dipendenti e collaboratori in casi come questo.
Un altro ruolo molto importante è quello di informare e formare tutta la forza lavoro sulle misure precauzionali adeguate.
Il modo migliore per tranquillizzare le persone non è minimizzare mentendo o trattarle come dei bambini di cinque anni, ma spiegargli esattamente come stanno le cose. Per farlo però bisogna conoscere bene l’argomento. Rem tene verba sequentur. https://t.co/spEKOxeNss
Un’ottima fonte di informazioni certe e verificate è il sito del Ministero della Salute. Ci sono anche diversi video che è opportuno diffondere il più possibile.
Il punto di vista dell’Impresa
Per le aziende, soprattutto quelle più piccole, è fondamentale mantenere un minimo livello di produttività. In Italia ci sono tantissime PMI che possono rischiare molto per lunghi periodi di chiusura temporanea del luogo di lavoro, come nel caso estremo di quarantena forzata.
Più in generale, un’azienda deve darsi alcune priorità:
Garantire la sicurezza dei lavoratori
Mantenere il più possibile un livello di servizio ai clienti
Mantenere in generale un buon livello di produttività
Supportare i partner in difficoltà (clienti e fornitori)
La prima soluzione più ovvia è quello dello smartworking, legale e regolamentato anche in Italia, ma che spesso viene visto ‘male’ dal datore di lavoro. E invece è questo il momento per introdurre il lavoro da casa per tutti, cercando anche di dotare tutti i dipendenti delle attrezzature adeguate per farlo (computer, accessi da remoto etc.).
Quali precauzioni e protocolli adottare in caso di Coronavirus?
In generale, le precauzioni sono quelle che abbiamo visto ovunque in questi giorni e sono ben riassunte in un ottimo poster sul Nuovo Coronavirus realizzato dal Ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di Sanità.
Il poster sul Coronavirus realizzata dal Ministero della Salute e dall’ISS
Sempre sul sito ci sono anche le risposte alle domande più comuni sul Coronavirus.
Ma sarebbe anche utile che le aziende si dotassero di un vero e proprio protocollo nel caso si trovassero in zone colpite da ordinanze di pubblica sicurezza particolarmente restrittive. Molte aziende in Lombardia e Veneto si sono già attrezzate.
Alcune idee per un regolamento aziendale:
introdurre lo smartworking e limitare tutti gli spostamenti/trasferte
definire clienti o servizi prioritari che devono essere tutelati maggiormente
comunicare a clienti e partner i protocolli adottati per garantire reperibilità e un adeguato livello di trasparenza
definire priorità amministrative per tutelare gli aspetti finanziari della gestione operativa
identificare dei responsabili all’interno dei gruppi di lavoro per coordinare provvedimenti ulteriori
Infine, da comunicatore, raccomanderei anche di mantenere sempre il più possibile un livello di informazione costante e trasparente su quello che l’azienda sta facendo nel corso dell’emergenza.
Aggiornamento del 23.02 – Diverse persone mi hanno chiesto cosa fare in questi giorni per contribuire alle misure di contenimento, soprattutto se non ci si trova nelle zone rosse ma magari si lavora con aziende in Piemonte, Lombardia o Veneto. La precauzione più ovvia è ovviamente quella di limitare il più possibile gli spostamenti e le trasferte in quelle zone e sostituire gli incontri de visu con le conference call. È un buon modo per non creare ansie inutili ma allo stesso tempo mantenere in piedi tutte le attività lavorative programmate.
Aggiornamento del 24.02 – Piano di qualche azienda ha cominciato a riflettere sull’impatto di una quarantena forzata sui reparti eCommerce delle aziende. Un bell’articolo di Digiday ad esempio racconta che in Cina molte aziende hanno sostituito attività di comunicazione digitali con quelle fisiche (Outdoor, eventi etc.) e gli eCommerce hanno avuto un boom, perché le persone si fanno consegnare a casa tutto quello che prima acquistavano nel negozio. Mi viene in mente un semplice consiglio per le aziende: trovate modo di garantire la robustezza delle operazioni lato eCommerce e di coprire i bisogni dei vostri clienti in modo alternativo agli incontri fisici che saranno fortemente impattati dalle diverse politiche di sicurezza sanitaria.
Aggiornamento del 25.02 – Ho registrato una puntata del podcast Il Bernoccolo assieme ad Andrea Ciulu sul tema Nuovo Coronavirus. Potete trovarlo su Apple Podcasts o Spotify, oppure farlo partire dal player qui sotto.
Aggiornamento del 28.02 – Un bell’articolo su HBR spiega cosa le aziende devono fare per prepararsi. Le cose più interessanti sono in fondo: il Covid-19 non sarà un caso isolato e cerchiamo di imparare qualcosa da questa situazione di emergenza.
Aggiornamento del 02.03 – Vodafone ha fatto un bel regalino ai clienti business: giga illimitati a supporto dello smartworking. Davvero una bella mossa!
Aggiornamento 07.03 – Molte aziende si stanno mobilitando per aiutare gli italiani ai tempi del Coronavirus: arrivano donazioni e agevolazioni da Esselunga, Unicredit, Xiami, TIM, Eni, UnipolSai e molte altre. Bella l’iniziativa di Google che rende gratuite le funzioni avanzate di videoconferenza Google Meet per gli utenti G Suite Business e G Suite Education. L’imperativo è andare avanti e contribuire il più possibile a frenare il contagio restando a casa e limitando ogni spostamento.
Aggiornamento 11.03 – Nuova puntata del Bernoccolo sugli eventi cancellati o posticipati. Cosa faremo in questi mesi? Potete trovarlo su Apple Podcasts o Spotify.
Molti parlano di Vision. La definirei come qualcosa che stabilisce cosa è importante per un’azienda sul breve, medio e lungo termine. È una sorta di inclinazione (o una fissazione?) che permette di compiere alcune scelte invece di altre.
Lo spiega in modo conciso e efficace Simon Sinek nel video che riporto qui sotto.
Non è detto che la visione sia sempre ‘alta’, può capitare che in alcune aziende le scelte siano orientate puramente al profitto di breve termine. In tal caso l’azienda diventa miope e non può andare molto lontano.
Perché la Vision serve in un’azienda?
In un’azienda ogni giorno vengono prese molte decisioni. E quasi tutte hanno un’impatto sul presente e sul futuro dell’azienda stessa. Come far sì che tali decisioni vadano tutte nella stessa direzione? Eh già, la vision.
Non è però facile far sì che tutti, ma davvero tutti, condividano la vision dell’azienda in cui lavorano. Qualcuno è molto motivato da un approccio ‘alto’, qualcun altro invece è più cinico e disilluso. E poi qualche volta parliamo più di Mission (quella sì dovrebbe motivare). Ma non è detto che mission e vision non possano essere la stessa cosa – come ad esempio avviene per Apple (secondo Comparably).
Mission e Vision di Apple secondo il sito Comparably.
Il vero ruolo della Vision: backcasting
Una visione solida permette al management di passare dal forecasting al backcasting. Invece di cercare di prevedere come sarà il futuro, è più utile ed efficace:
immaginare un obiettivo (un master plan da qui a 10 anni come fa Tesla, ad esempio);
a partire dall’obiettivo immaginare una serie di processi decisionali, regole e pianificazioni utili ad arrivare a quell’obiettivo;
mantenere degli step intermedi per verificare che la visione di lungo termine sia rispettata.
Il backcasting parte dalla vision per pianificare tutte le scelte.
In questo modo possiamo influenzare davvero ogni scelta non tanto perché tutti in azienda abbiano la visione stampata nella mente, ma perché sono le stesse regole del gioco a fare in modo che gli obiettivi di tale visione possa essere raggiunti.